Agli inizi degli anni ’70 il lupo italiano era ridotto alla soglia dell’estinzione e proprio in quegli anni venne approntato un progetto di conservazione che ha col tempo mostrato aver avuto successo. In quegli anni, nel 1972 per la precisione, Luigi Boitani ed Erik Zimmen vennero incaricati di svolgere il primo censimento del lupo italiano, il primo censimento basato su criteri e riscontri oggettivi. Il quadro che i due studiosi stilarono era, come si sa, un quadro desolante: rimanevano in tutta Italia circa 100 lupi (ad onor del vero va detto che altri studiosi sostengono che verosimilmente i lupi rimanenti erano un pò di più!) e questi erano dislocati in luoghi per lo più inospitali ed inaccessibili in un’ area molto vasta che veniva suddivisa in4 grandi zone dalle Marche alla Silla.
Probabilmente uno dei luoghi dove il lupo sopravvisse, seppur con individui erranti , seppur sempre braccato dall’uomo e seppur in pochissimi esemplari (2 o 3 al massimo) fu proprio l’areale dei moni reatini.
Le tradizioni locali, ovviamente la toponomastica di molti luoghi e anche l’economia dei paesi del circondario del Terminillo hanno visto il lupo come attore fondamentale.
C’è una storia, una delle tante, che ancora oggi i vecchi del paese tramandano. Una storia che si perde nella notte dei tempi, non saprei ben collocarla storicamente, forse parliamo della metà del 1800, forse ancor prima, ma è una storia che vale la pena raccontare.
Erano gli anni in cui i commerci tra Rieti e l’ Umbria passavano ancora per le antiche strade dei passi di montagna, per le strade che oggi sono sentieri e che valicano i Monti Reatini passando da Rivodutri, per il Passo La Fara, per la Fonte delle Porcareccia , per le Fosse del Monte Tilia e così per arrivare a Leonessa.
Due viandanti, forse venditori di stoffe, altri dicono venditori di sale, si dice fossero padre e figlio, in un tardo pomeriggio invernale si erano attardati nelle osterie di Rivodutri cercando di venedere qualcos’altro perchè all’epoca la vita era dura veramente, tanto dura che la fatica passava quasi in secondo piano rispetto alla necessità primaria di guadagnarsi il pane per sè e per i figli. Si dice che il tempo non prometteva bene ma i due dovevano tornare a Leonessa e nonostante in molti li sconsigliavano e quasi li supplicavano di aspettare il mattino seguente i due decisero di partire. Era quasi l’mbrunire, per di più si avvicinava il mal tempo e quei boschi che i due avrebbero dovuto attraversare erano infestati da torme di lupi!
Lasciarono il paese e si diressero verso Nord, ma di lì a poco il tempo cambiò e una bufera di neve li colse poco dopo le antiche mole fuori del paese lungo il fosso del Trifoglio. Decisero di fermarsi lì, non potendo tornare indietro, nella zona che gli antichi avevano chiamato Le Cerque Sante e Ara Lupara. Accesero un fuoco e poi…nulla si seppe più di loro.
Uno o due giorni dopo dei taglialegna passarono per di là e trovarono solo le scarpe e pochi resti dei due sventurati. Da quel giorno ogni viandante che risaliva verso Leonessa posò un sasso su quel luogo per ricordare i due imprudenti e sventurati commercianti di sale o di stoffe. E da quel giorno questo luogo è noto come “I Morti”. Ancora mia nonna raccontava che era sua abitudine quando bambina passava per di là, diretta ai prati d’altura presso il Faggio di San Francesco che all’epoca erano rigogliosi campi di grano, posare un sasso.
Sono quelle storie antiche, che i nonni raccontavano ai nipoti davanti al fuoco nelle fredde giornate invernali, ma è una testimonianza , arrivata dalla tradizione orale, delle antiche vie di comunicazione di una volta, del sacrificio e della sofferenza che la gente pativa.
E quasi come storie fiabesche di un’epoca tramontata da secoli risuonano le avventure di Eufranio Chiaretti: “l’ultimo dei lupari”.
Quella del luparo era una vera e propia professione antica, risalente addirittura ai tempi di Carlo Magno , ai tempi in cui la tradizone romana del favor lupis (basti pensare, per esempio, che il medaglione con la raffigurazione del lupo era il simbolo della Pax Romana) cedette il passo alle esigenze della rinascita economica del X secolo e il lupo, da animale sacro e divino divenne un nocivo.
Eufranio Chiaretti fu l’ultimo di una generazione di lupari che di padre in figlio si tramandò i segreti del mestiere e del territorio. Le sue storie narravano di lotte epiche, impari e crudeli , di storie di sofferenza e fatica, di odio e amore per quest’animale che seppur “nocivo” dava da vivere anche da morto. Si certo, non posso negare che provo molta rabbia a rileggere oggi di queste povere bestie che si mordevano gli arti immobilizzati nelle tagliole per cercare di liberarsi, di come venivano catturati, uccisi e torturati , dei cuccioli che venivano portati via vivi dalle tane e si lasciavano morire di fame, ma bisogna tener presente il contesto economico e sociale di quella realtà. Non che voglia giustificare tanto odio e tanta brutalità ma la vita di molti dipendeva dalla morte del lupo, in una sorta di circolo vizioso per cui il lupo doveva il più possibile essere sterminato ma non doveva scomparire, perchè scomparendo avrebbe sancito la fine stessa del luparo che dalla sua morte (ma in fondo dalla sua vita) traeva sussistenza per sè e per la famiglia. Ed Eufranio Chiaretti fu il protagonista di questo paradosso: eroe dei bambini che lo vedevano passare col lupo morto sulla bicicletta ed antieroe di sè stesso, perchè alla fine fu l’ultimo dei lupari, vittima quasi tragica di quella professione: per mano sua il lupo nei monti reatini fu ridotto ad uno o due esemplari vaganti e non stanziali, forse addirittura sparì del tutto per molti anni da queste montagne ed Eufranio, per sua stessa mano e per mano del lupo morto rimase senza mestiere , fino all’ulteriore paradosso della sua vita per cui l’esperienza e la conoscenza della montagna che la caccia al lupo gli aveva dato lo portò, se voleva mangiare, a lavorare come guardaboschi !!
Eufranio Chiaretti ed il lupo morto (1965 .ca)
Oggi il lupo è tornato ad abitare i monti reatini ed il Terminillo in modo stabile; sono dell’estate passata le notizie di attacchi alle greggi al pascolo nelle radure nei dintorni di Pian de’ Valli e non è difficile trovare i segni della sua presenza. Purtroppo, oggi come in passato la convivenza col lupo non è cosa scontata e anzi sembrano riaffacciarsi orizzonti foschi perchè i conflitti con la zootecnia portano spesso all’esasperazione e la risposta delle istituzioni non è sempre efficace come invece dovrebbe. D’altra parte però voglio sottolineare che un barlume di speranza viene anche dai “nuovi” metodi di esercizio della pastorizia che con l’ausilio della tecnica (penso alle recinzioni elettriche – che tra l’altro hanno anche un costo relativamente basso a fronte di una efficacia garantita-) o con l’ottimizzazione di antichi “stratagemmi anti-lupo” a cura e guardia delle greggi (l’impiego di razze canine opportunamente selezionate e addestrate come il pastore abruzzese) stanno , seppur lentamente, prendendo piede anche da noi. Forse è proprio in questa direzione che le istituzioni dovrebbero muoversi di più; anche qui servirebbe più contatto con i diretti interessati e sarebbe opportuno favorire ed incentivare l’utilizzo di sistemi di prevenzione ancorchè semplicemente limitarsi a garantire l’assistenzialismo (peraltro spesso evanescente) in caso di danno da predazione.
Fatto sta che volenti o nolenti il lupo è tornato, ed è tornato come patrimonio di queste terre di montagna e la sua storia ha già dimostrato che da qui non può andarsene perchè sono i suoi monti, prima ancora che i nostri. E lui fa parte di noi quale retaggio culturale inscindibile dalla nostra vita , inscindibile dalle nostre radici, tanto quanto è inscindibile la nostra tradizione religiosa o la nostra storia. Il lupo è prima di tutto una presenza necessaria del nostro territorio , è un patrimonio (anche in termini monetari!!) , è una ricca eredità di cui spesso inconsapevolmente ancora viviamo.
Una traccia lasciata da due lupi rinvenuta da poco nei Monti Reatini (autunno 2008)
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